Recensire un'opera come questa è arduo tanto quanto avventurarsi in un campo minato. Le mine non le ha certamente messe l'autore anche se, al giorno d'oggi, non garantirei che non ne sarebbe stato uno degli artefici.
Siamo di fronte ad un signor libro che, circondato da uno sterminato numero di opere simili (per lo meno per come è inquadrato l'argomento, certamente molte di queste posteriori al libro di Levi) riesce a svettare al di sopra più che d'altro per lo stile da vero narratore. E qua inizia il conflitto nel giudicare l'opera. Un libro davvero notevole a livello letterario che raggiunge un picco massimo nel brano che affianca alla vicenda la Divina Commedia. Poche pagine di una bellezza sopraffina. Purtroppo poi arriva la postfazione dell'autore a macchiare il capolavoro. "Lo stile non l'ho curato per nulla" dice Levi. Signori: invito anche chi non avesse voglia di leggere tutta l'opera a soffermarsi per qualche minuto sulle pagine in questione. Pura poesia che non può alienarsi dallo stile superbo. Non falsa modestia, a mio avviso, nelle parole di Levi bensì la voglia di far prevalere il contenuto alla scatola. Ma una scatola orrenda spesso deturpa anche ciò che è contenuto all'interno e, lungi dall'essere tacciata di stucchevolezza, questa scatola è a dir poco sopraffina. Il contenuto, per l'appunto. Il libro diviene famoso per essere una testimonianza diretta all'inferno dei lager. Lo diviene immediatamente, in tempi vicini a quelli narrati. Purtroppo, però, l'obiettività tanto decantata sparisce completamente nella postfazione. Meglio che non ci avesse sottolineato l'autore la sua (sacrosanta del resto) partigianeria. Per lo meno non cercando più volte di prenderne le distanze. Eh no, caro Levi, le distanze non le hai prese. Ti sei piazzato sul piedistallo del NOI meglio di LORO facendo di un peso due misure. Già, perchè quei morti trattati da una parte da "martiri" non meritano l'ignomia di piazzarsi di fronte agli altri non degni, per esser stati soltanto "tragici, frequenti, ERRORI".
Voto 7.5