"Non devi inchinarti davanti a nessuno, Hugo!" Gli eredi della terra è un grande romanzo storico, che si perde e fa perdere in un mondo vivido, così perfettamente ricostruito da sembrare ridicolmente attuale, in cui le logiche civili, religiose, politiche non sono lasciate sullo sfondo come pallidi accessori di scenografia, ma entrano prepotenti nella narrazione divenendone talvolta protagoniste. Sono molte le digressioni di carattere ricostruttivo, inserite distrattamente sotto forma di discorso diretto o intenzionalmente in lunghe panoramiche, ma il primo, fondamentale, merito di Falcones è di sorprendere il lettore e di riuscire a renderlo avido di queste informazioni. La parentesi, pure talvolta lunghe, scorrono agili e contribuiscono all’immedesimazione, alla partecipazione delle vicende che coinvolgono il protagonista. E qui viene il secondo, grande, merito dell’autore: il ritmo della trama. Conosciamo Hugo Llor poco più che bambino, coraggioso al limite dell’ingenuità, e le novecento pagine lo vedranno crescere fino alla soglia dei cinquant’anni. Mezzo secolo di avventure rocambolesche, fughe, ritorni, sotterfugi, rapimenti, delusioni, tradimenti e tanto, tanto amore. Amore per le donne della sua vita: sua madre, sua sorella Arsenda, l’ebrea Dolça, suo primo amore, la timida Eulalia, la giunonica Barcha, Caterina, la liberta russa e, sopra tutte, Mercè, sua figlia. Amore per i vitigni, per il vino e per l’aqua vitae. Amore per i sani principî, come l’onestà, la lealtà. Tutti questo moventi trovano nel calderone di Falcones una mescita sapiente ed equilibrata, certo un po’ romanzesca, ma più che mai adeguata a un’opera letteraria. I cenni della fortuna si abbattono sul protagonista incessantemente, non lo abbandonano mai e lo trascinano in un vortice di avventure che a stento dieci uomini potrebbero effettivamente affrontare in una vita mortale, ma se quest’accanirsi della sorte può risultare eccessivo, occorre tenere presente la finzione del romanzo, e premiare piuttosto la fantasia di chi ha concepito tutta quest’architettura. Un genio creativo che permette di ingoiare pagine su pagine con poco sforzo e crescente curiosità, al quale si aggiunge il pregio del “disincanto”. Nonostante i sentimenti, la morale di Hugo, la sua non è una storia perfetta. Il lieto fine è lieto, bien sûr, ma umano: il romanticismo non prende il sopravvento sul buonsenso nemmeno una volta, in tutto il libro. Le alterne vicende del protagonista non si macchiano di gesta grandiose, redenzioni miracolose o emancipazioni improbabili, ma rimangono sempre all’interno dei binari ideali delle sue possibilità. Ancora una volta il lettore è portato a simpatizzare con Hugo, a considerarlo un personaggio reale, proprio in virtù di questo realismo. La scrittura è poi piana, senza eccezionali meriti ma di buon livello. Non si perde tra tecnicismi, arcaismi o inutili, oscure, circonlocuzioni, ma si presta a una lettura agevole e piacevole, pur mantenendo un’ottima padronanza della sintassi e senza scadere in una prosa scontata. Si tratta, in conclusione, di una lettura assolutamente raccomandabile: disimpegnata e allo stesso tempo formativa, scorrevole e appassionante. Un ottimo romanzo, ad esempio, da divorare durante le vacanze natalizie.