Nel giugno 1940, mentre Mussolini dichiarava guerra al mondo, usciva un romanzo del giovane giornalista Dino Buzzati in cui la guerra si attendeva, invano, nella speranza che desse un senso al destino degli ufficiali e dei soldati mandati a presidiare una fortezza al confine di uno stato imprecisato. Il deserto dei Tartari, disperata parabola sulla vanità dell'esistenza, rischiò così, per un paradosso della storia, di esser contrabbandato per libro guerrafondaio, tanto più che la prima traduzione europea, in tedesco, apparve nel 1942 nella Vienna nazista. Ma fortunatamente il messaggio del romanzo era troppo netto per dar luogo a equivoci. La Fortezza Bastiani, affacciata su un deserto che secondo una leggenda era stato un tempo sede delle scorrerie delle orde dei Tartari, accoglie il tenente di prima nomina Giovanni Drogo come un incubo concentrazionario accoglie chi lo sogna: circondata dal nulla, al nulla votata nel susseguirsi immobile di giornate tutte uguali, essa diviene il luogo dell'attesa e dello scacco, segnato da un'aura di sommessa ma inscalfibile delusione che finisce per costituire un bastione contro sconfitte e tragedie ben peggiori. Nonostante abbia ottenuto un trasferimento, Drogo resterà per tutta la vita nella fortezza, spiando i minimi indizi dell'avvicinarsi di un qualunque nemico (e basta anche il più labile e improbabile per farlo resistere altri anni nell'attesa). E quando finalmente il nemico si paleserà, con un esercito in armi, e cannoni, e tutto il necessario, lui sarà ormai troppo vecchio per combattere: verrà perciò spedito nelle retrovie, dove lo coglierà con dolcezza la morte naturale. Una morte liberatoria e consolante, per una vita che non ha voluto, né saputo, essere vita.