“Giuseppe” di Michele Comper è un romanzo distopico, ambientato in un futuro così imminente che potrebbe benissimo confondersi con il presente, se non fosse per alcuni dettagli stranianti che proiettano il lettore in una dimensione temporale dove alcune tendenze già presenti nella società d’oggi risultano accentuate e portate alle loro estreme conseguenze. Tra queste, spiccano la pervasività dei media e della rete, la completa spettacolarizzazione della realtà, l’introduzione di un sistema di calcolo elettronico delle pene nell’amministrare la giustizia, il conseguente mutamento dei valori e dei sistemi di significato tradizionali, l’affermarsi di nuovi schemi di ragionamento collettivi. La dissoluzione dell’autorità e della giustizia, preconizzata da Nietzsche nella Gaia Scienza, sembra giungere qui al suo compimento. Il romanzo inizia in medias res. Ci troviamo subito sulla concitata scena di un omicidio, in piena città. Per terra c’è un uomo primo di vita. A sparargli è stato Giuseppe, di professione orafo. Se lo è visto venirgli addosso di corsa, con una pistola in mano, in fuga dopo la rapina alla banca. E gli ha sparato d’istinto. L’anno prima Giuseppe aveva subito una rapina. Un suo dipendente era rimasto ucciso. Da allora ha un’arma, regolarmente detenuta. Quel giorno, l’aveva con sé. E l’ha usata contro il rapinatore, prima che fosse lui a sparargli. In realtà, come appurano i poliziotti giunti sul luogo dell’accaduto, i fatti sono andati diversamente. Non c’è stata alcuna rapina. Solo un alterco tra l’uomo, un imprenditore di nome Emilio, e il direttore della banca. Emilio, disperato per i debiti, aveva minacciato il suicidio se il direttore non gli avesse concesso un prestito. Non voleva fare sul serio, il suo era un bluff. Per questo aveva con sé la pistola, ma era scarica. Così Giuseppe, vittima di un tragico qui pro quo, si sente schiacciato dal senso di colpa per aver ucciso accidentalmente un innocente. Ma nella società della post-verità e del relativismo etico, non c’è posto per il rimorso. Questo Giuseppe lo imparerà a proprie spese. La polizia fa i rilievi del caso, ascolta velocemente i testimoni e l’omicida, lo identifica e se ne va. Lasciandolo con il peso del delitto sulla coscienza. La nuova procedura non prevede nemmeno che ci si rechi in questura. La giustizia farà il suo corso, ma intanto il protagonista si logora perché vorrebbe subito una pena che lenisca il suo senso di colpa. Giuseppe va alla ricerca di un processo, di una condanna. Si sottopone al giudizio di diversi “tribunali”. C’è la giuria popolare del bar dello sport, che lo assolve distrattamente, senza valutare i fatti nel merito. C’è il processo mediatico, incentrato sulla spettacolarizzazione degli elementi; quello dei “Mi piace” in rete che minaccia di trasformare Giuseppe in una star del web con milioni di visualizzazioni. Il poveretto, sempre più prostrato dal rimorso, va al funerale della vittima. Ma non sa che il funerale è ormai un reality televisivo. Con tanto di scenografia dell’aldilà con ingressi separati per credenti e non credenti, con la presentatrice che intervista i parenti come in un talsk-show, il figurante vestito da Morte con la falce e la bara al centro del palco, avvolta in un fascio di luce, che sale a poco a poco per uscire dal tetto apribile del palazzetto. Ma anche la confessione di Giuseppe durante lo show, tra uno spot pubblicitario e l’altro, non sortisce alcun effetto. Non era prevista dal format della trasmissione. Il pubblico, anzi, lo applaude. Giunge finalmente il giorno del processo in Tribunale. Esso non ha nulla a che vedere con i processi che si celebravano un tempo. Ormai sono digitali. Un cervellone elettronico reperisce su internet le informazioni necessarie alla sentenza, include le attenuanti e calcola la pena. Il carcere non è stato ancora abolito, ma non è più contemplato. Tutte le pene sono pecuniarie: «Senza soldi sei morto, con tanti soldi sei un dio, ergo: la giustizia non può che andare a parare lì». Giuseppe è condannato a pagare una somma molto alta. Soldi che non ha. A quel punto si aprono varie possibilità. Può scegliere un’altra società giudiziaria che propone sconti di pena. Può rifiutarsi di pagare e rivolgersi a un avvocato per far arenare il processo nelle secche dei ricorsi e della burocrazia. Nessuna, però, attenua il suo senso di colpa. Non gli resta così che il conforto della religione. Ma i sacerdoti sono stati sostituiti da una comunità ecclesiale e il sacramento della confessione è stato sostituito da una confessione pubblica. I componenti della comunità ecclesiale, però, fuggono dinanzi alla responsabilità di assolvere o condannare il responsabile di un peccato così grave come l’omicidio. Il protagonista, sempre più ossessionato dalla colpa, dopo aver trovato la forza di compiere una visita sulla tomba della sua vittima, perderà la vita travolto da un’auto. Il senso di colpa non si estinguerà con la sua morte ma si trasferirà al suo investitore. Come in un loop esistenziale dove la fine e l’inizio coincidono. Il romanzo è una sorta di remake capovolto nella traiettoria e simmetrico nell’esito de “Il processo” di Franz Kafka. Se l’alter ego di Kafka, l’innocente Joseph K., è stato vittima di una giustizia onnipotente, quella dell’epoca dei regimi totalitari, il colpevole Giuseppe lo è di una giustizia impotente, quella dell’epoca dell’individuo.