New York, intorno al 1840. Un pacioso avvocato di Wall Street mette un annuncio su un giornale per procurarsi un nuovo scrivano. L’incontro fra i due personaggi dà luogo a uno dei confronti più drammatici e comici della letteratura moderna: in un crescendo di reticenze, fino alla stasi assoluta, alle richieste del capoufficio lo scrivano risponde: “Preferirei di no”. Il mondo del lavoro, dell’assuefazione quotidiana, del discorso, della ragione stessa entra in crisi davanti all’Inter e Bartleby, un po’ Buster Keaton un po’ scarafaggio kafkiano ante litteram, angelo sterminatore che annuncia una verità altra. Herman Melville dimostra di saper genialmente scherzare su temi grandi e ossessionanti come la pazzia, la predestinazione, l’impossibilità congenita di comunicare fra l’uomo felicemente integrato e l’uomo segnato per sempre da un trauma indicibile. Melville stesso commentò “Bartleby” in cinque racconti che scrisse subito dopo: “Chicchirichì”, “I due templi”, “Il paradiso degli scapoli e il tartaro delle fanciulle”, “Jimmy Rose”, “Io e il mio cammino”. Si tratta di testi poco noti ma non meno straordinari di “Bartleby” per quello che ci dicono del mondo dell’alienazione moderna e dei momenti di visione e persino di felicità che esso nonostante tutto concede.