I detective selvaggi
  • 9788838923890
  • Sellerio
  • 2009

I detective selvaggi

di Roberto Bolaño

«I Detective selvaggi – ha scritto Enrique Vila-Matas – ci fanno conoscere uno scrittore sbalorditivo che ci fa capire quanto può essere profonda la gioia di leggere». E la sbalorditiva gioia del capolavoro del cileno Bolaño, morto giovane ma quando era già lo scrittore in lingua spagnola di riferimento delle ultime generazioni, è che può essere molte cose tutte insieme, da potersi leggere seguendo molte trame, comprese le più incongrue, colte o avventurose. Si presenta come una specie di falso poliziesco – estenuando e deformando il suo modello, le finzioni borgesiane –, o di sarcastico on the road, a cavallo di due tempi in cui avrebbe potuto succedere tutto, il tempo delle avanguardie artistiche e il tempo della gioventù «alternativa» anni Sessanta Settanta. Arturo Belano e Ulises Lima, sedicenti poeti e piccoli trafficanti, i detective, adepti di un’improbabile ed estrema avanguardia, il «realvisceralismo», cercano, attraverso l’America Latina, la mitica fondatrice della loro setta artistica. La donna era Cesárea Tinajero, creatrice di un’unica composizione inedita e scomparsa nel nulla in anni distanti. E la loro ricerca, pretesto e copertura intellettuale per oblique imprese, si snoda seguendone la vita e le opinioni raccontate, avanti e indietro nel tempo. Al presente dei due detective sulle tracce della capostipite, in compagnia di un diciassettenne alla scoperta del sesso e di una prostituta adolescente in fuga dal suo protettore, seguono gli indiretti resoconti, vent’anni dopo, di testimoni che conobbero Arturo e Ulises. Ma anche questi ultimi sono in realtà narratori egocentrici che si perdono in grottesche avventure di ogni genere, che ritessono confuse mitologie, in cui si inseguono labili indizi, fino a fugare la speranza che di Cesárea si possa davvero sapere qualcosa. Un vagabondare irrequieto in cui ogni evento ogni personaggio sembrano sdoppiare indefinitamente le possibilità della vita, senza che nessuno riesca alla fine ad afferrarne alcuna. Una magnifica metafora che è stata letta come la dispersione di una generazione sudamericana, perduta tra sogni rivoluzionari e spietate repressioni; oppure come la versione iconoclasta e ironica dell’epica a volte compiacente di un continente il cui spirito meglio si riflette ai due estremi delle finzioni borgesiane e delle desolate solitudini di Macondo.


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