"Ciascuno di voi ha soltanto una storia. Scriverete la vostra unica storia in molti modi diversi. Non state mai a preoccuparvi per la storia. Tanto ne avete una sola." Oggi sono qui per raccontarvi una delle mie ultime letture, si tratta di Mi chiamo Lucy Barton di Elizabeth Strout. Due donne in ospedale, l'atmosfera è ovattata, la luce soffusa per non infastidire la malata, Lucy, febbricitante per un'infezione post chirurgica. Dalla finestra della camera la vista mozzafiato dei grattacieli di New York e seduta su una sedia scomoda, un po' imbarazzata, la madre di Lucy. Potrebbe sembrare un normale quadro famigliare, se non fosse che Lucy e sua madre non si vedono da decenni, da quando la figlia lasciò il minuscolo paese rurale del Midwest dove era cresciuta tra stenti e violenze domestiche, fuggendo lontano per studiare e ricominciare una nuova esistenza. Ed ora eccole ricongiunte, madre e figlia, vicine fisicamente in quella stanzetta d'ospedale, ma separate da una voragine di anni e silenzio durante i quali Lucy è diventata moglie, ha dato alla luce due bimbe ed ha intrapreso la carriera di scrittrice: una vita nuova di zecca, che non è peraltro riuscita a cancellare del tutto il passato. Di fronte a una madre che non è mai stata in grado di proteggerla né di prendere le sue difese, una donna invecchiata che si è presentata inaspettatamente al suo capezzale e che non trova di meglio, per riempire i silenzi ingombranti, che snocciolare pettegolezzi su vecchie conoscenze di quella comunità che la figlia ha abbandonato da anni, raccontando di famiglie in difficoltà, di donne tradite e di matrimoni infelici (da che pulpito!), Lucy reagisce nell'unico modo che conosce, non con la rabbia che il lettore si aspetta, ma con una malinconica tenerezza e un'incredibile desiderio di accettazione. Cerca quelle tre parole che insegue da una vita, quel "ti voglio bene" che sembra così difficile da pronunciare per entrambe. "Quello della solitudine era il primo sapore chew avevo assaggiato nella vita e non se ne andava più, nascosto nelle pieghe della bocca, a ricordarmi." Nei brevi capitoli di questo breve romanzo, passato e presente si intrecciano e si inseguono come il sonno disturbato e la veglia febbricitante di Lucy, in un racconto fatto di brevi dialoghi, lunghe pause, parole non dette e mute richieste. Le ore nella camera si trascinano lente, quiete, in un'atmosfera quasi sospesa dalla realtà, la monotonia delle giornate ospedaliere interrotta solo dal bisbiglio delle infermiere e dalla mano gentile del medico curante; e la Strout sembra adattare lo stile a questa ambientazione; gioca di sottrazione, con una prosa essenziale, laddove in altri romanzi, mi viene in mente Amy e Isabelle, pure incentrato sul rapporto madre figlia, stupiva per le descrizioni minuziose e la cura per i dettagli. Mi chiamo Lucy Barton è un libro che si legge in poche ore: dialoghi a singhiozzo, pochi particolari, i riflettori puntati su queste due donne messe a nudo, sul loro rapporto (o non-rapporto) e sul potere salvifico del perdono, quello che permette alla fragile Lucy, la bambina povera e diversa, la donna in cerca di amore incondizionato, di voltarsi indietro senza rancori, e di pronunciare quelle parole, forse tardive, forse immeritate, che la renderanno libera, almeno dai fantasmi del passato. Questa Strout "inedita", maestra come sempre nel raccontare i legami di famiglia, delicata nel tratteggiare due personaggi imperfetti e irrisolti, che cercano faticosamente il momento giusto per dirsi "ti perdono e ti voglio bene" (nonostante tutto).